Per certi versi la carriera da giocatore è più semplice rispetto a quella di un allenatore, da sempre un uomo solo.
Fu Sacchi a ripetere più volte quella frase. Sì, perché un allenatore è davvero un uomo solo, tanto in panchina quanto fuori, deve saper reggere bene l’onda d’urto dei media, sempre pronti a puntare il dito quando le cose vanno male, viceversa si osanna chi va in campo.
Media, ma non solo: le tifoserie spesso sono tutte uguali, così come la città. Che ti abbraccia quando arrivano risultati e trofei, ti scacciano alla prima crisetta.
Così si è sentito Fabio Cannavaro. Non uno qualsiasi. Un ex Pallone d’Oro che in carriera, da giocatore, ne ha vissute di tutti colori.
Dagli anni difficili con il Napoli perché spesso usando una massima latina “nemo profeta in patria”, ai primi successi con il Parma, passando agli “zero tituli” con l’Inter ai successi con la Juve. Dalle accuse di doping all’apoteosi nel Mondiale 2006, fino ad arrivare al Pallone d’Oro conquistato quando vestiva la maglia di un club storico, come il Real Madrid.
Ne ha viste di tutti i colori da giocatore. Eppure da allenatore le cose cambiano, vengono completamente stravolte da una nuova visione. “Quando non arrivano i risultati ti girano, quella è la parte più logorante per un allenatore. Cerchi di dare il massimo, di lavorare tantissimo per aiutare i tuoi giocatori, ma a volte capisci che la parte più importante del calcio sono i giocatori. Se ce li hai, sennò…”.
Un po’ di rimpianti il Cannavaro allenatore ce li ha. Pensava, sperava, che il suo ritorno in Italia dopo aver girovagato fra Al-Ahli e Guangzhou, Al-Nassr (proprio la squadra attuale di Cristiano Ronaldo), Tianjin Quanjian e allenatore (ad interim) della Cina, fosse di ben altro spessore.
Invece al Benevento è iniziata così e così e finita male. Anzitempo. “I giocatori avevano quasi timore a guardarmi. Quando sono entrato nello spogliatoio erano tutti timidi, con la testa bassa, poi piano piano abbiamo preso confidenza, hanno capito che ero uno di loro. Tutto bello da calciatore, però dopo c’è il campo e uno si deve spogliare di quello che ha fatto. L’esperienza a Benevento comunque mi è servita”.
Eccolo però il grande rimpianto: “Forse è stato un errore, per aspettare qualcos’altro, di non accettare la panchina della Polonia – conclude Fabio Cannavaro, sempre ai microfoni di DAZN – prima del Mondiale in un periodo in cui non c’era ancora la guerra. Loro erano una buona Nazionale”.